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Read Ebook: L'incantesimo by Butti Enrico Annibale

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Ebook has 1639 lines and 90956 words, and 33 pages

Release date: November 6, 2023

Original publication: Milano: Treves, 1897

E. A. BUTTI

L'INCANTESIMO

ROMANZO.

MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1897.

PROPRIET? LETTERARIA

Tip. Fratelli Treves.

ALLA MEMORIA SACRA DELLA MAMMA

LA SIRENA.

Nota dell'Autore.

Debbo anzi soggiungere che il concetto fondamentale dell'opera nacque e si svolse in me s?bito dopo la morte del carissimo e nobilissimo compagno, avvenuta nella estate dell'anno 1893, -- morte che tante e s? belle speranze tronc?, disperdendo, per un oscuro capriccio del Destino, una moltitudine di possibilit? insolitamente lusinghiere.

Queste cose ho voluto dire, innanzi tutto per ricordare in fronte alla mia opera il nome dell'amico perduto, che l'ha ispirata; e poi anche, per mettere in guardia il lettore su la conclusione di questa prima parte, conclusione che non ? definitiva.

E. A. B.

L'APPARIZIONE.

Una campanella acuta e stridula singhiozz? ostinatamente nel silenzio.

Il giovine conte Aurelio Imberido, allo squillo subitaneo, si scosse con un moto brusco su la sedia a sdrajo, dov'era caduto in sopore mentre studiava e meditava con un grosso volume di economia politica tra le mani; fiss? per un attimo, istintivamente, gli occhi ancor torpidi su la pagina aperta del libro; poi lo scagli? d'un tratto lontano, verso una tavoletta d'ebano gi? tutta ingombra di fascicoli e di fogli scritti. Il libro cadde a terra in piatto, sollevando un romor secco d'esplosione e un nuvolo di polvere.

Era l'ora del tramonto: dalle stecche delle persiane richiuse, un livido chiarore penetrava a pena nella camera, come una triste luce lunare. A poco a poco l'aria ambiente era andata imbrunendo durante il sonno del giovine, e al richiamo della campanella questi con suo ingrato stupore s'era trovato l? disteso e immemore, avvolto in una semioscurit? che non gli permetteva pi? di distinguere i caratteri del libro in lettura. Egli ebbe nel levarsi un gesto d'ira, quasi di sdegno contro il suo frale organismo che gli aveva rubato per riposarsi un tempo prezioso; e si diresse a passi concitati verso il vano del balconcino.

Spalanc? le persiane con violenza, e usc? fuori all'aperto. La stanza da studio guardava a levante, incontro alla collina e al vecchio giardino del palazzo dagli alti abeti, dai grandi cedri svettati, dalle innumerevoli statue bianche. In quel chiuso paesaggio i rossori del tramonto non mandavano un riflesso; ogni tinta vi si ammorbidiva, assumendo tonalit? viepi? discrete e quietanti.

Il cielo appariva gi? cupo, sebben non anche solcato da stella; le piante nell'orto, le vigne serpeggianti lungo i lividi scaglioni, le praterie presso i culmini parevan fresche e umide come dopo una pioggia; soltanto, dietro la linea pacata dei colli, la nuda solitaria piramide del Sasso del Ferro si slanciava verso l'azzurro, ancor rosea e calda dell'ultimo bacio solare.

Aurelio, appoggiato con le braccia alla ringhiera, guard? la montagna luminosa con uno sguardo corrucciato, in cui una punta d'invidia pareva. Era pertinace il suo dispetto; egli non poteva perdonarsi quelle due ore d'incoscienza, che il suo corpo aveva pur dritto d'esigere dopo una notte insonne. La sua paradossale opposizione alle leggi della Natura aveva sofferto un'altra piccola sconfitta: egli s'era imposto di studiare fino all'ora del pranzo, e non l'aveva potuto perch? il sonno gli era piombato sopra d'improvviso, strappandolo alla sua volont?. -- Il giovine, com'era abituato dalla solitudine e dalla vita contemplativa alle riflessioni larghe e sintetiche, pens? a questo duello strano, disperante che la sua tempra di ribelle gli imponeva anche contro l'Invincibile; e sorrise mestamente, non senza per? un certo fondo di simpatia e d'ammirazione per la sua bellicosa debolezza.

Aurelio Imberido contava a quel tempo venticinque anni o poco pi?. Di statura media e alquanto esile, se non eran le sue forme complessive quelle del perfetto tipo virile, aveva egli bens? una testa singolarmente nobile, che sola bastava a designarlo come il prodotto d'una razza superiore, diretta da secoli per una serie di generazioni progressive verso le sommit? della Specie. Il naso lungo, profilato, regolarissimo, partiva dalla fronte estesa, alta e ben lunata, disegnando una linea diritta, a pena un po' prona su la fine; la bocca era larga, sincera, senza pieghe malinconiche o amare; sotto la breve barba nera a punta, il mento e l'arco dell'osso mascellare, a bastanza sviluppati, chiudevano armonicamente ed energicamente l'ovale del suo viso. Contrastavano con la forza e la purezza di tutti i suoi lineamenti gli occhi e il color della pelle: gli occhi piccoli e glauchi, che parevan coperti come da una tenue velatura lattea, nel rossore delle palpebre e della cornea accese da un'ostinata infiammazione; il color della pelle, ch'era femmineo, bianchissimo, anzi pallido, d'un pallor tenero e unito senza irradiazioni rosee e senza livide ombre.

Il portamento altero del capo, la foga del gesto, certi sguardi profondi, investigatori, talvolta quasi molesti nella loro velata fissit?, l'uso assiduo d'abiti oscuri e di cappelli flosci caratterizzavan cos? la sua persona, che vista una sola volta non si poteva dimenticare mai pi?.

Estremo discendente d'una famiglia aristocratica, che aveva dato alla storia pi? nomi illustri di capitani e di diplomatici, il conte Imberido dai primi anni di giovinezza aveva sentito il bisogno di dominare, di farsi largo tra la folla, d'empire il mondo della sua persona e delle sue virt?. La sua famiglia, un tempo doviziosissima, aveva attraversato nell'ultimo secolo un periodo disastroso: le rivoluzioni avevan sottratto gran parte delle antiche ricchezze all'avo suo Gian Franco, morto gloriosamente in esilio dopo aver sacrificato ai nuovi ideali democratici anche le tradizioni della sua stirpe, sposando per amore la figlia d'un martire, povera e di modestissime origini. Il padre suo Alessandro, superbo e sensuale, forse per nascondere la sua ruina agli altri e a s? stesso, aveva sperperato in lusso e in vizii il resto del patrimonio avito e quasi intera la dote della moglie, un'assai nobile donna che il primo parto aveva condotta irrimediabilmente al sepolcro. In fine anch'egli, ebete e distrutto, s'era spento ancor giovine, lasciando nelle strettezze il figliuolo poco pi? che trilustre e la vecchia madre sessantenne.

Aurelio rimase cos?, orfano e quasi miserabile, erede d'una secolare tradizion di grandezza, in faccia all'avvenire fosco e minaccioso. Il suo spirito si tempr? nella sventura e nell'abbandono. Egli comprese s?bito che lo studio, solamente lo studio nei tempi nostri avrebbe potuto renderlo degno del suo nome e capace di riaccendere intorno a questo una nuova aureola di superiorit? e di potenza. Si nudr? adunque di letture varie e profonde, esercit? il suo ingegno in ogni campo dello scibile, svilupp? le sue preziose facolt? con le meditazioni pi? acute e le ricerche pi? diligenti. E, sfuggendo ogni occasione di svago e di riposo, s'appart? in una specie di chiostro intellettuale dove gli echi del mondo non gli giungevan che affiochiti come voci sotterranee e irreali.

Fu in una siffatta solitudine che si precisarono a poco a poco le sue ingenite tendenze di dominatore: gli insegnamenti della filosofia positiva e sopra tutto quelli della sociologia e dell'economia politica gli aprirono un vasto orizzonte d'azione e di ridenti possibilit?. Eran le lotte della vita pubblica, che lo chiamavano, che promettevano al suo sogno d'effettuarsi: per esse non avrebbe mancato, con la sua intelligenza, la sua coltura e la sua forza morale, di togliersi dall'oscurit? in cui era immeritatamente caduto e divenire una persona insigne, un condottiere d'uomini inermi, come gi? qualche suo avo era stato d'uomini armati.

Usc? a vent'anni, gravido di scienza e d'illusioni, dalla sua biblioteca, dove omai gli pareva di soffocare, e si gitt? tosto perdutamente nella mischia, tra la folla, alla dolorosa conquista d'una gloria. La sua ingenua sincerit?, la singolarit? delle sue idee, lo splendore della sua dottrina non tardarono ad attirare su lui l'attenzione malevola di tutti quanti gi? combattevano nella lizza politica, sciupati dal contagio popolare, corrotti dall'esperienza, avvelenati da una vanit? insodisfatta o dalle umili esigenze della vita quotidiana. La Rivista di sociologia, ch'egli aveva fondata con quattro o cinque coetanei trascinati dal vento del suo entusiasmo, fu accolta da costoro con l'indifferenza beffarda che schiaccia senza toccare: essi risero discretamente alle sue spalle, malignarono un poco sul suo gran nome e su la sua povert?, lo giudicarono uno spirito eccentrico e malfermo, poi continuarono tranquilli la loro via senza pi? curarsi di lui o di quanto egli scrivesse.

Questo primo insuccesso tra le persone pi? autorevoli della citt? non fece che spronare il giovine a proseguir la sua campagna con maggior pertinacia e con miglior discernimento: abituato in solitudine a giudicar tutto e tutti indipendentemente dall'opinione comune, egli si sent? onorato dalla sorda ostilit? e dal disdegno, che gli venivan tributati da gente ambigua, spregevole, senza coltura e senza convinzioni di sorta. E, pi? che non mai fiducioso nel suo programma che sapeva fondato sopra solide affermazioni della scienza e della filosofia, si diede ben tosto a ricercare altrove il suo pubblico di seguaci e d'ammiratori.

Era una grande opera di restaurazione sociale ch'egli aveva meditata e voleva pazientemente iniziare. -- Gli statuti, le leggi, le formule correnti e le teorie preferite nei tempi nostri minacciavano, secondo lui, il progresso avvenire della Specie, poich? tendevano a soffocare la lotta per l'esistenza, a rinnegare il principio ereditario, a distribuire i diritti e i poteri e i beni con criterii astrattamente numerici in opposizione agli esempii della Natura. Le torbide condizioni della societ? contemporanea, abbandonata omai all'arbitrio delle masse, dipendevano sopra tutto dall'acquiescenza quasi criminosa delle classi superiori, che avevano piegato il capo sotto la violenza o si eran morbosamente commosse alle declamazioni e ai sofismi della democrazia. Rassegnati o ap?stati, gli uomini che, affinando il corpo ed elevando lo spirito con le pi? aspre discipline, avevan gi? tenuto nelle loro mani i destini della razza, erano in atto d'abbandonare armi e insegne a coloro, che una lunga servit? e una secolare ignoranza rendevano indegni nonch? di governare e di giudicare gli altri, anzi di godere della stessa loro libert? d'azione e di pensiero. Occorreva dunque risvegliare dal letargo o dal sogno quei nobili immemori della loro storia; occorreva chiamare sollecitamente a raccolta tutti quelli che si erano adattati al presente stato di cose, per debolezza, per inerzia o per disdegno; occorreva ricostituire una nuova aristocrazia battagliera con i resti dell'antica e i doviziosi e gli eletti, per arrestare a forze riunite il cammino della barbarie plebea, ebra dei successi ottenuti, bramosa di devastazioni e di rapine.

Con un programma cos? audace e insolente, esposto per? con sottile abilit?, senza precipitazione e senza intemperanza di parole, la Rivista dell'Imberido trov? alfine un pubblico di curiosi e d'apprezzatori laddove appunto egli desiderava, tra le persone c?lte e facoltose, tra gli uomini di scienza, tra i filosofi, tra gli artisti. La cerchia dei collaboratori venne man mano allargandosi; la polemica con gli avversarii, sopra tutto socialisti, s'accese vivace e cortese; uno scambio elevato d'idee si determin? tra i due campi, precisandone gli intendimenti, lumeggiandone la profonda divergenza di principii, preludendo pacificamente alla gran lotta che i tempi maturano e l'avvenire dovr? decidere in favore degli uni o degli altri.

Ma il giovine non poteva appagarsi del successo di curiosit? ottenuto dal periodico, n? della effimera nomea che gli davano i suoi articoli succosi e cristallini. Egli voleva lasciare una traccia pi? notevole e pi? duratura di s?; egli voleva organizzare in un libro il complesso delle idee che spargeva disordinatamente e a seconda delle occasioni nella Rivista.

Ottimo consiglio gli parve, poich? omai il periodico aveva conquistato pubblico e fortuna, il ritrarsi dalla lotta viva, per qualche tempo; molto pi? che la stagione calda incominciava, e la citt? era divenuta intollerabile sotto un sole assiduo che fiaccava forza, volont? e ingegno. Durante la sua assenza, i compagni senza difficolt? avrebber potuto continuare l'opera da lui intrapresa, e al bisogno egli, anche da lontano, li avrebbe sorvegliati e consigliati a dovere.

Dopo aver raccomandato la Rivista alla direzione d'uno de' suoi pi? ardenti collaboratori, il giovine avvocato Zaldini, egli, con un'enorme cassa di libri e di carte, si ritir? in un piccolo villaggio del Verbano, a Cerro, dove contava di passare l'estate e l'autunno in un assoluto isolamento.

Il palazzo, di cui l'Imberido aveva preso a fitto soltanto l'ala sinistra, era un antico monasterio divenuto pi? tardi dimora padronale. Seduto maestosamente a mezzo del villaggio su un rialto erboso, esso apriva le sue rade finestre e i suoi due rozzi balconi laterali a una vista superba, di fronte alla massima estensione del lago, che ivi s'ingolfa profondamente verso la valle del fiume Toce e le creste del Sempione. Era un'architettura primitiva, quasi immutata dal tempo in cui i monaci l'avevan costrutta: liscia, densa, disadorna nel suo esterno, s'alleggeriva e s'aggraziava internamente dove un cortile recinto da un doppio ordine di portici diceva ancora il gusto e la possanza degli antichi proprietarii. Le stanze eran tutte a v?lta, semplicissime, ben quadrate, sebbene un po' tenebrose per la scarsit? e l'angustia delle luci. A pian terreno un pertugio a mo' di grotta metteva in comunicazione il cortile col primo spianato d'un giardino veramente mirabile.

Il palazzo confinava da una parte col letto d'un torrente sempre gravido d'acque, dove i pallidi armenti scendevano al meriggio per dissetarsi; dall'altra parte, con la piazza principale del Comune, una ristretta superficie inclinata verso il lago, cui facevan corona alcuni abituri addossati l'uno all'altro in disordine e l'umile prospetto della chiesa parrocchiale. Il villaggio poi era quieto, muto, come spopolato; un rifugio di pescatori insociabili, che parevan uscire soltanto a vespro dalle dimore per mettere, su la riva gi? ottenebrata, mobili profili neri, simili a fantasmi.

La campanella acuta e stridula squill? un'altra volta, anche pi? a lungo nel silenzio. Aurelio, ch'era rimasto immobile al balconcino, gli sguardi perduti nel vuoto, forse oppresso ancora dai residui della sonnolenza, si scosse. Quel secondo richiamo era dedicato a lui che, come d'abitudine, tardava a presentarsi alla mensa; ed egli, dallo strappo vibrato, disuguale, sebbene un po' debole, che moveva la campana, riconobbe esser la nonna medesima che lo sollecitava. Con un atto neghittoso si pass? le mani su gli occhi, quasi si fosse risvegliato in quel punto, rientr? a passo incerto nella camera gi? invasa dall'ombra, raccatt? il libro caduto a terra, e poi si risolse non senza sforzo a discendere per il pranzo.

La mensa era preparata nel mezzo d'una gran sala umida e tetra a pian terreno, assai pi? lunga che larga, le cui pareti tra le scrostature, le livide macchie e le pallide emanazioni del salnitro mostravan qua e l? brani a pena decifrabili di pitture a fresco. Quella piccola tavola rettangolare, cos? bianca nella bianca tovaglia su cui piombavan concentrandosi di sotto al paralume opaco i raggi bronzei della lampada, pareva fosforescente nella vasta oscurit? del luogo.

Aurelio, dopo un breve indugio su la soglia, entr?.

Donna Marta, che stava gi? seduta al suo posto di fronte all'uscio e mangiava, alz? il viso dalla scodella fumante per gittargli uno sguardo gonfio di rimproveri. Era una vecchia donna d'oltre settant'anni, magra, distrutta, rattrappita, pallida d'un pallor cereo, quasi orrida nei lineamenti che l'et? e l'indole impulsiva avevan devastati: un gran naso aquilino, cartilaginoso, spiccava in maniera grottesca nel mezzo della sua faccia; il mento, troppo forte e sporgente, faceva s? che il labbro di sotto soverchiasse quello di sopra fin quasi a coprirlo; i capelli grigi e copiosi, inanellati alla foggia antica, ondeggiavanle a cernecchi intorno alle orecchie e su l'occipite con una triste caricatura di giovinezza. Eppure ella non era fastidiosa n? ripugnante a vedersi, specialmente se la si osservava con un poco d'attenzione e di continuit?. In fatti nel lampo degli occhi, due grandi occhi nerissimi dilatati da una lunga malattia al cuore, e nel facile sorriso che scopriva la dentatura ancor ricca, e nella mobilit? vertiginosa delle espressioni, donna Marta possedeva una specie di grazia affascinante che accattivava la simpatia di chiunque la conoscesse.

-- ? almeno mezz'ora che t'aspetto! -- ella brontol? sordamente, fissandolo con la faccia scura. -- Come sempre, mi son dovuta risolvere a pranzar sola. Nessuno al mondo, per tua norma, non mi ha mai fatto aspettar tanto: n? il tuo povero padre, n? il mio povero marito. Essi per? mi rispettavano, mentre tu non hai proprio alcun riguardo per me!...

Era la solita occhiata minacciosa che lo riceveva quand'egli compariva in ritardo su quella soglia; eran le solite parole aspre con le quali s'inaugurava troppo spesso il pasto familiare. Senz'aprir bocca, con un lieve sorriso benevolente su le labbra, il giovine sedette a tavola, vers? flemmaticamente la sua parte di zuppa nella scodella e incominci? a mangiare.

Egli aveva fatto l'abitudine a queste brusche accoglienze. Egli d'altra parte sapeva che l'umore dell'avola non poteva avere stabilit? e tra poco ella medesima si sarebbe dimenticata d'essere in urto con lui. In quel cervello bizzarro le idee, le imagini, le volizioni si rincorrevano con una singolare rapidit?, senza un nesso determinato, per un principio di degenerazion nervosa che la rendeva intollerante di qualunque stato fisso dello spirito. Tacere adunque, in aspettazione della prossima crise psichica, era ancora il miglior sistema per vivere in concordia e in armonia con lei.

Un silenzio segu?. Fu donna Marta che parl? prima; e parl? amabilmente con la sua voce chiara e giovenile dei momenti buoni, che tanto contrastava con la decrepitezza della sua figura.

-- Aurelio, sai dunque la gran novit??

-- Che novit?? -- domand? il giovine, sorridendo.

-- Eh, c?spita, sono arrivati i nostri vicini, or fa una mezz'ora. ? stata una festa per questo paese! Cerro ? tutto in fermento: la spiaggia d'avanti al palazzo sembra un magazzeno di casse, di cassette, di bauli, di valige! Tu vedessi: la popolazione vi si ? riversata in massa per assistere allo sbarco, per prender parte all'opera di sgombero che continua ancora. E il ricevimento degli ospiti fu clamoroso, addirittura trionfale: ? visto alcune contadine che sventolavano i fazzoletti, mentre i monelli grandi e piccini gittavano in aria i berretti, urlando a squarciagola: <> Ti garantisco: una scena curiosa che mi ? divertita pi? che a teatro!

La vecchia parlava assai forte, alternando le intonazioni basse della voce con le acute, sottolineando le frasi con certi gesti enfatici che la mettevan tutta scompostamente in agitazione. A ogni tratto per? era costretta a interrompersi per riprendere il fiato; e lo sforzo era visibilmente penoso.

-- E perch? tanto chiasso per alcuni villeggianti che arrivano? -- chiese Aurelio con un'aria d'indifferenza. -- Per noi non si ? fatto niente di simile, mi pare.

-- C?spita, si capisce! Tutti li conoscono qui in paese: sono ormai dieci anni che vengono a passar l'estate e l'autunno a Cerro. E poi l'ingegnere, lo sai, ? amministratore di tutte le possessioni che ha nei dintorni la marchesa de Antoni. Qui anzi lo si chiama senz'altro: il Padrone.

-- Il Padrone! -- ripet? il giovine con un sogghigno amaro, rivedendo d'innanzi a s? la figura imbelle e servile dell'ingegner Boris.

-- Sicuro. Questa buona gente non ha mai visto e conosciuto che lui: se ha ricevuto del danaro fu dalle sue mani; se ne ha consegnato fu nelle sue mani. ? naturale che lo si creda il proprietario e lo si chiami cos?.

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